Questo ? un ricordo lontano, di quando era estate e non sapevo mai cosa fare a pomeriggi interi. Le scuole erano un ricordo, ma la campagna non offriva molte alternative. Allora prendevo la bicicletta, il cane sempre dietro, e me ne andavo in giro per i campi e la bonifica, e poi con la barca a raggiungere i miei amici in padule. La caccia era chiusa, e il padule era popolato solo dai falascari e dai barchettari. I primi tagliavano il falasco, raccogliendolo sugli argini, gli altri lo caricavano per portarlo non so dove, sui loro barchetti grigi e neri, odorosi di catrame; altri ancora traversavano tutto il lago, e poi il padule, coi loro barchetti carichi di pietre enormi, caricate nelle cave, e che servivano per la diga sul mare. Spingevano il barchetto carico per chilometri, sul lago, con la stanga appoggiata sul fondo melmoso, camminando ritmicamente sul bordo di legno della barca, in senso inverso alla marcia; in padule, invece, camminando sugli argini dei fossi tirando l’alzaia. Una fatica improba, ma allora era cos?. E forse anche ora, per quei pochi che ancora fanno questo mestiere. Ogni tanto una sorsata di vino o una sosta lungo un ciuffo di piante. Dorsi duri e bruciati dal sole, curvi e rigati dall’alzaia tesa. Poche parole scambiate quasi d’intesa quando incontravano un compagno, scarse canzoni. Alle due del pomeriggio si ritrovavano tutti nel canale del Porto, coi barchetti scarichi, per aspettare il maestrale: allora, su le vele, ed il ritorno era rapido e fresco, quasi meglio della siesta della sera, sotto la pergola di casa. E nell’attesa del maestrale, ciascuno tirava fuori il pentolino o un pane, e in comune consumavano il pasto, in allegria.
Ragazzi di quindici anni o vecchi di cinquanta, ognuno raccontava le sue avventure presenti e passate, le spacconate delle domeniche di caccia o le imprese colle puttane degli argini, o le barzellette lette sui giornali dal barbiere. Poi si facevano gli scherzi ai pi? vecchi, o ai pi? giovani, o ai pi? sprovveduti.
Ricordo una volta, un giorno in cui il maestrale tardava: un vecchio si era appisolato su un mucchio di falasco. Ci fu un cenno d’intesa tra tutti, un risolino compresso. Berto si alz? piano e disse: ?Vado io?. Strisci? lento verso il vecchio, poi tir? fuori la macchinetta e dette fuoco al falasco. Il fuoco crepit? piano piano, poi divamp? con lunghe lingue fumose. E il vecchio dormiva. Il fuoco si avvicinava sempre pi?, sempre pi? alto, sempre pi? arrabbiato. E il vecchio dormiva. Il fumo saliva senza deviare, in una densa nube, a stento nell’afa, le fiamme camminavano svelte. E il vecchio dormiva. Nel gruppo qualcuno si impietosiva; vedevano le fiamme quasi lambire la schiena riarsa che a volte scompariva nel fumo.
Disse una voce: ? Vedrai che si sveglia.?
E un altro: ?No, quello ha il sonno troppo duro. E’avvezzo a sopportare la Teresa…?
E tutti risero.
Il vecchio sembrava molestato, nel sonno faceva dei gesti come se volesse scacciare i mosconi.
Allora uno cominci? a chiamarlo forte: ?Oh Frenky, che vuoi diventare, una bistecca??
Ci fu un leggero moto del vecchio, forse pensava al maestrale. Si rigir? pigro su un fianco e allung? un braccio. Allora si scott?, emise un grido soffocato, balz? a sedere, poi in piedi. Non ci vedeva dal fumo, sent? il fuoco vicino: tutto intorno il crepitare e le risate dei compagni.
Fece un balzo e si tuff? dall’argine. Nuot? qualche bracciata, poi si arrampic? fuori dal fuoco, bestemmiando.
Fu subito circondato dagli altri, che ridevano come matti; e via via che la rabbia aumentava, segno che era uscito senza danni, tutti diventavano sempre pi? allegri. Lui voleva picchiarli tutti, menava le mani in aria, poi si ritirava per attaccare il pi? vicino, poi minacciava di nuovo. Le mutande bagnate, che erano arrivate al ginocchio, gli impedivano di saltare. Era veramente uno spasso.
E finalmente se ne accorse anche lui. Fece per un po’ l’imbronciato, poi tutto fin? in una bevuta. E arriv? il maestrale.
Anche la sera al bar ci fu una nuova bevuta; se ne parl? per un po’, in paese. Lo chiamavano Frenky il tizzone, non si sa se per via del fuoco di quel giorno, o per il colore della schiena, dopo quarant’anni di sole e d’alzaia.
Animava le serate, quando gli argomenti della caccia erano scarsi: lo mettevano in mezzo al cerchio, con qualche bicchiere in pi?: ?Oh Frenky, ti ricordi di quando??
E lui si ricordava sempre e prendeva il via. Raccontava di quando gattonava la puttana zoppa dell’argine, e poi gli faceva schifo la gamba di legno che una volta si trov? tra le braccia, o di quando gli prese fuoco la barca in mezzo al lago, una sera di tramontana pungente, o di quando si rovesci? in acqua per i troppi muggini che aveva pescato.
Noi le sapevamo tutte, le sue avventure, ma nel bar si rideva sempre ugualmente. E gi? bicchieri. E Frenky, sentendosi primo attore, ci dava dentro. Raccontava a scatti, saltellando sulle gambette storte e striminzite, ammiccando con occhi furbi smarriti tra le rughe di un volto vecchio e magro. Era furbo, perch? sapeva che questo era l’unico modo per restare sulla cresta, per scroccare qualche bevuta, per far sapere a tutti che era stato in gamba.
Ed era sempre in gamba, povero Frenky. Duro come uno stecco secco, scricchiolante come la sua barca sull’onda, vivo come la cicca del suo toscano, una sera si ruppe, si spense di colpo. Frenky il tizzone ci lasci? cos?.
Tutti lo ricordano in paese, seduto sulla seggiola al bar, ansimante per gli ultimi aneliti. Solo gli occhi ammiccavano lucidi come sempre, e la cicca di lato.
Quasi volesse ancora salutare qualcuno!

Tratto da ?I Racconti del padule?, di Roberto Cabib
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